lunedì 26 novembre 2007

L'altra Russia è in pericolo


La notizia è pesante, una di quelle che dovrebbero lasciare il segno nella comunità democratica dell'occidente.
Kasparov, uno dei nomi più in vista della dissidenza russa al regime dello Zar Vladimiro, è stato sbattuto dentro assieme ad altri oppositori, per aver svolto una manifestazione non autorizzata.
L'obiettivo era protestare contro l'esclusione delle liste di Altra Russia, di cui Kasparov è animatore, dalle prossime elezioni politiche.
La Russia ufficiale, quella autoritaria di Putin, ha ancora una volta represso in modo spiccio una legittima protesta democratica.
Non mi stupirei se prima o dopo Kasparov venisse condannato al confino, nel solco della più antica tradizione locale, o se gli accadesse di peggio.
L'arroganza e la sfacciataggine dello Zar Vladimiro non hanno limiti; il governo non esita a mostrare i muscoli alla comunità internazionale o all'opinione pubblica, quando si sente sotto pressione.
Gli oppositori vengono ridotti nella condizione di non nuocere, attraverso gli strumenti offerti dalla repressione poliziesca o giudiziaria o attraverso le esecuzioni sommarie, come accaduto a Litvinenko o alla Poliktovskaja.
Con la fine della guerra fredda molti speravano che la Russia, pur in mezzo a tentennamenti e contraddizioni, si stesse avviando lentamente verso la democrazia.
Invece, a 16 anni di distanza dalla fine dell'URSS constatiamo che l'orso russo è ancora vivo e vegeto ed ha ripreso il suo cammino minaccioso.
Preoccupante la situazione dei diritti umani e delle libertà politiche all'interno, altrettanto preoccupante la strategia aggressiva emergente in politica estera, che comunque, a dire il vero, è stata stimolata dalle provocazioni statunitensi.
Il regime putiniano è un groviglio di interessi che trasversalmente passa per il suo entourage, il partito Russia Unita, settori importanti della macchina statale, le forze armate e le grandi corporazioni che hanno preso il posto delle vecchie aziende pubbliche.
A questo monolite si oppongono gruppi politici e culturali piuttosto sparuti, i cui membri rischiano letteralmente la vita. Davide sfida Golia ma non si sa come andrà a finire.
In mezzo la grande massa dei cittadini russi, apatici, intimiditi, oppure schierati con il presidente - zar perchè sedotti dalle sue promesse di recuperare la grandeur perduta.
Sta alla finestra la comunità occidentale, che ogni tanto rumoreggia ed esprime critiche, ma non può entrare in rotta di collisione con i vertici di un paese i cui legami economici con l'occidente sono ormai molto saldi e che è uno nostri dei principali fornitori di energia.
Tuttavia, credo che l'Altra Russia, quella possibile della democrazia, non possa essere lasciata da sola in questo momento. Servirebbe uno slancio diverso.
Bookmark and Share

sabato 24 novembre 2007

Raiset: il monopolio della disinformazione

In questi ultimi giorni in Italia abbiamo scoperto l'acqua calda. Alcuni dirigenti della Rai e di Mediaset, quando era al governo il centrodestra, si accordavano per pilotare palinsesti, linee editoriali dei tiggì, titoli, numero di apparizioni dell'uomo della provvidenza Berlusconi e così via.
Ma non solo; a quanto sembra la gestione delle due aziende televisive, teoricamente concorrenti, veniva unificata dietro le quinte anche per licenze e diritti di trasmissione.
Esiste una corrispondenza e-mail fra manager statunitensi ed italiani di importanti case cinematografiche come Sony e Warner, allegata agli atti del processo milanese sulla questione, da cui traspare la rabbia per aver appurato che Raiset faceva cartello per abbassare il prezzo delle licenze relative a fiction e film.
Tutto questo avveniva per volontà di uomo che afferma di essere un convinto sostenitore del libero mercato.
Berlusconi si autodefinisce liberista quando in realtà sotto il profilo imprenditoriale è un monopolista, perfetto interprete della tradizione capitalistica italiana oligarchica ed intrallazzona.
Mentre sotto quello politico vuol passare per liberal-democratico mentre invece è un peronista, un populista che spaccia menzogne a ciclo continuo.
Non so se ridere o arrabbiarmi di fronte a esponenti del centrodestra, come Guzzanti e Liguori, che hanno dichiarato: dov'è lo scandalo?
O ci sono o ci fanno; nella prima ipotesi sono talmente immersi nella melma del sistema politico e dell'informazione che non si rendono conto della gravità dei fatti.
Nella seconda (secondo me quella vera), cercano di nascondere in maniera risibile quello che si presenta evidentemente come uno scandalo dai risvolti penali.
Divertente anche il direttore generale della Rai Cappon, che dice: faremo chiarezza. Come si può dare fiducia ai vertici di un'azienda pubblica screditata?
Sconcerta poi il riemergere del finto garantismo, altro leit motiv di questo paese da operetta; non bisogna esprimere giudizi prima che i fatti siano chiari, si dice; e fin qui va bene.
Bisogna attendere l'esito delle indagini della magistratura, e va bene anche questo. Non bisogna divulgare le intercettazioni perchè è una violazione dei diritti dell'indagato e si presta a strumentalizzazioni politiche.
E questo non va affatto bene; le intercettazioni telefoniche, in un paese di inchieste insabbiate, processi tagliati dalle prescrizioni e continue interferenze della sfera politica in quella giudiziaria, sono uno strumento di controllo democratico.
Chi ha un ruolo pubblico e viene sorpreso a fare conversazioni telefoniche che presentano profili di illecito, deve dimettersi. Poi la giustizia farà il suo corso ed accerterà l'effettiva sussistenza di fatti penalmente rilevanti.
L'episodio dovrebbe finalmente far capire anche ai più duri di comprendonio quanto è pericoloso per la democrazia che un uomo a capo di un grande gruppo editoriale (nonchè proprietario di altri asset di rilievo in campo bancario, edilizio etc) possa essere contemporaneamente capo del governo o leader di una coalizione di partiti.
A meno che non ci siano molte persone, in Italia, che lo capiscono ma lo accettano, e questo è letale per il futuro della democrazia.
D'altra parte, la folla accorsa Domenica scorsa a Milano per la chiassata del Berlusca purtroppo lo dimostra.
Bookmark and Share

mercoledì 21 novembre 2007

Il populismo di Berlusconi

Berlusconi ne ha fatta un'altra. Nel corso della battaglia per la leadership del Centrodestra pareva ormai messo all'angolo ed in attesa solo del colpo del KO, dopo la sconfitta del tentativo di far cadere il governo. Però con una mossa imprevista ha rimesso tutto in discussione.
Ha sorpreso gli alleati, annunciando in piazza a Milano la volontà di sciogliere Forza Italia per costituire un nuovo partito.
Il messaggio di domenica scorsa è duplice; è ad uso e consumo dei partner insofferenti come della sua base interna.
Io l'ho fatta ed io la distruggo...ha ribadito una volta di più che Forza Italia non è tanto un punto di riferimento per l'elettorato moderato, quanto piuttosto una sua creatura di cui resta il padrone indiscusso.
Forza Italia fin dalle origini è un partito azienda, diretta emanazione dell'impero economico del cavaliere, o se vogliamo un'organizzazione berlusco-centrica dove quadri e militanti sono sostanzialmente dipendenti che devono adeguarsi alle linee dettate dal vertice.
Lo ha indirettamente confermato lui stesso: ho deciso di sciogliere Forza Italia in solitudine, ha detto.
Immagino lo smarrimento dei collaboratori ed assistenti vari...io non ne sapevo niente! D'altra parte il sovrano assoluto non condivide le scelte con la corte, ma le comunica semplicemente il suo volere. Il lacchè è tale, perchè conta poco o nulla.
Forza Italia si conferma essere un "monstrum" che (fortunatamente) non ha termini precisi di paragone nei sistemi politici occidentali.
E questa è una delle ragioni per cui Berlusconi è guardato con diffidenza, se non con antipatia bipartisan, dai partiti e dall'opinione pubblica degli altri paesi europei.
L'altra è l'uso spregiudicato e talvolta illegale, a fini personali, della funzione di governo che ha caratterizzato la sua permanenza alla guida dell'Italia, a richiamare sinistramente nell'immaginario occidentale lo straripante Citizen Kane di Orson Welles o l'eclissi dei valori democratici.
Berlusconi negli ultimi anni ha cercato sempre di più un contatto diretto con la base dei suoi militanti e con tutto l'elettorato di Centrodestra.
Scavalcando a piè pari le consuetudini ed i passaggi tradizionali della politica, in una logica nettamente plebiscitaria.
Il cavaliere fa leva sulla demagogia e su argomenti inverosimili di propaganda per mantenere lo scettro.
Domenica, al grido di " basta coi parrucconi!" (proprio lui parla, che ha fatto il trapianto di capelli) si è rivolto al popolo per denunciare il teatrino della politica, per far vedere che lui non ne fa parte ma è onesto nelle intenzioni, nella volontà di fare il bene del paese.
Berlusca cerca di riprendersi il ruolo di campione dell'antipolitica, dell'antisistema, contro l'usurpazione di Beppe Grillo.
Si propone come alfiere del nuovo che avanza. E' l'ennesimo gioco di prestigio del vecchio illusionista che, come sa bene chi ha un minimo di senso critico, è invece uno dei pilastri del sistema di potere che da quindici anni manda in rovina il nostro paese.
L'interprete principale a 70 anni suonati di un teatrino di cariatidi, come ad es. Dini, che non vogliono lasciare la scena.
Preoccupa l'atteggiamento di chi cerca, su premesse truffaldine, di mobilitare la piazza contro governo e parlamento per spingerli ad andare a casa.
Il populista Berlusconi se ne infischia delle regole della democrazia rappresentativa, quella dei parrucconi, perchè (così crede) il popolo è con lui. Randella, con abili operazioni mediatiche od incitando la folla, chi non si allinea.
Chi stia veramente dalla sua parte resta però un mistero della fede; a sentire gli efficienti agit-prop forzitalioti come Bondi, il cavaliere Domenica ha raccolto 7 milioni di firme contro Prodi.
Il cittadino di senso critico di cui sopra però si domanda: come poteva Bondi, con le operazioni di firma ancora in pieno svolgimento, ad avere un dato pressochè definitivo? E chi conta le sottoscrizioni per attestare che è un numero reale?
Berlusca ed i suoi servitori sono fatti così: inattendibili come le televendite di pentole o i reality delle reti Mediaset. Ci sarebbe da ridere, se non fossero in gioco le sorti della democrazia italiana.
Bookmark and Share

venerdì 16 novembre 2007

Venti di guerra sul mondo

Dal Tg di oggi.
La Russia si ritira dal trattato di non proliferazione degli armamenti convenzionali.
E' una risposta alla politica espansionista degli USA, che si è manifestata fra l'altro con l'insistenza di testa vuota Bush nel portare avanti il progetto di installazione di sistemi antimissile in alcuni paesi di recente adesione alla NATO (Polonia e Repubblica Ceca).
Nel frattempo Ahmadinejad, vero pericolo pubblico internazionale (altro che Saddam Hussein), prosegue con il programma nucleare iraniano a dispetto dei richiami della comunità mondiale e facendosi forza dell'appoggio sostanziale della Russia e della Cina.
Le due potenze pensano in tal modo di controbilanciare il peso guadagnato dagli americani nell'area del Golfo Persico; anche l'India fa la sua parte, con una strategia diplomatica basata sulla cooperazione politico - economica con russi e cinesi che di fatto allontana la più grande democrazia asiatica dall'occidente.
In Pakistan il sistema di potere di Musharraf è ai ferri corti con l'opposizione di Benazir Bhutto: il paese è destabilizzato e si può facilmente intuire quanto tutto ciò sia pericoloso per gli equilibri mondiali in una nazione su cui pesa l'incognita del radicalismo islamico.
Quest'ultimo a sua volta è in piena controffensiva sia in Iraq che in Afghanistan, paese che fino ad alcuni mesi fa era relativamente tranquillo.
Dove possano portare queste crisi locali, all'interno di stati che confinano gli uni con gli altri, nessuno è in grado di dire con certezza.
La nostra epoca si caratterizza non solo per la globalizzazione, con il suo impatto rivoluzionario sugli assetti economici e sociali del mondo, ma anche per una rinascente tensione fra blocchi politico - militari.
Dopo la fine della guerra fredda si è verificato un temporaneo sparigliamento delle carte, che adesso le maggiori potenze stanno rimettendo in ordine sul tavolo per giocare una nuova partita.
Da una parte gli Stati Uniti e (almeno teoricamente) i paesi occidentali, dall'altra un asse Mosca - Pechino, che manovrano di concerto e cercano di manipolare i focolai di crisi regionale per i loro interessi.
In mezzo c'è l'estremismo islamico, variabile che sfugge al controllo e può orientare le relazioni internazionali verso scenari di difficile previsione.
E l'Europa?
L'Europa, che in virtù della sua storia e cultura potrebbe essere la forza moderatrice in grado di stemperare le tensioni ed indicare un'alternativa di dialogo e cooperazione, è un colossale carrozzone di 27 stati membri, e perciò incapace per definizione di funzionare ed elaborare strategie politiche comuni per il futuro (ed il bene di tutti).
Non c'è da stare allegri.
Bookmark and Share

giovedì 15 novembre 2007

Flags of our Fathers, la memoria della guerra

L'altra sera, preso dallo sconforto per la penuria di programmi interessanti in tv, ho noleggiato Flags Of Our Fathers di Clint Eastwood.
Sono un fan del vecchio Clint fin dai tempi dell'ispettore Callaghan, però questo capitolo quando è uscito al cinema me lo sono perso.
Clint Eastwood è come i vini pregiati; più invecchia, più diventa bravo.
Ha la capacità di raccontare puntando dritto al cuore delle questioni umane, con immediatezza e rara efficacia. E' un comunicatore che con il linguaggio filmico riesce a farsi capire bene da tutti.
Flags Of Our Fathers è prima di tutto un film irriverente; affronta il tema della memoria collettiva americana del secondo conflitto mondiale, svelando il rovescio della medaglia.
La vicenda è quella della bandiera issata dai marines sulla vetta del monte Suribachi, durante la furiosa battaglia per la conquista di Iwo Jima.
Chi erano i soldati che l'hanno piantata? Quante foto sono state scattate in realtà? Una o due? Cosa ne è stato di quei ragazzi? Com'è stata la battaglia?
Secondo Clint l'immagine divenuta famosa in tutto il mondo ed amata dagli americani come un simbolo di vittoria, eroismo e sacrificio, è stata scattata con i militari in posa.
Dopo che la bandiera era stata piantata una prima volta da altri loro compagni appena giunti sulla cima, al prezzo di una sparatoria con i giapponesi.
E' una vecchia polemica, che ha sempre diviso gli americani fin dal 1945. Eastwood appoggia questa tesi.
Se ne serve per raccontarci un'episodio di morte e dolore abilmente sfruttato, in termini di marketing, dalle autorità USA che erano a caccia di denaro attraverso le obbligazioni di guerra, per finanziare l'ultima spallata al Giappone.
Il conflitto in quella primavera del '45 stava pesando molto sui conti pubblici e l'opinione pubblica era stanca; ecco che allora un tour promozionale degli eroi di Iwo Jima (ma non erano loro in realtà) poteva servire per ridare slancio alla guerra.
Il film tuttavia non ha un intento strettamente politico, anche se traspare con chiarezza il j'accuse contro le autorità militari e politiche per il cinismo con cui venne gestita la vicenda.
Lo scopo principale di Eastwood è seguire il lato umano, come sempre più spesso gli accade negli ultimi anni.
Si concentra sul dramma dei tre militari, eroi per caso, e dei loro commilitoni ad Iwo Jima.
Due reggono il gioco; uno cercherà a guerra conclusa di sfruttare la sua popolarità per fare carriera.
Il secondo è un coraggioso infermiere rimasto ferito durante la battaglia, che si arrovella per il rimorso di non essere riuscito a salvare abbastanza compagni dalla morte.
Il terzo è un pellerossa che ha la funzione di coscienza critica; difatti si ribella agli scopi propagandistici dell'operazione.
Sarà lui a subire lo scotto più pesante: a guerra finita non riuscirà a dimenticare i morti e gli orrori visti e continuerà a macerarsi nel senso di colpa per essere sopravvissuto ed essere stato spacciato per eroe.
Con una regia che alterna bene il passato e il presente dove gli anziani reduci rievocano quei giorni, Eastwood spoglia dal velo della retorica la memoria che gli americani conservano di Iwo Jima e più ampiamente della seconda guerra mondiale.
Come si dice nel film, i soldati muoiono per la patria, ma prima di tutto muoiono e si sacrificano per i loro compagni, per chi gli cade a fianco o davanti.
Non ci sono eroi, ma solo uomini che soffrono per i loro compagni, i loro fratelli e che cercano di portare a termine nel miglior modo possibile il compito che gli è stato assegnato.
Gli eroi vengono creati dalla politica, per ammantare di nobiltà e bellezza la cruda essenza della guerra.
Eastwood conferma di essere forse l'ultimo umanista di Hollywood, un cineasta sensibile, coraggioso ed attento. Voto: 8+
Bookmark and Share

mercoledì 14 novembre 2007

Il funerale di Gabriele è il funerale del calcio


Stamattina si sono celebrati a Roma i funerali di Gabriele Sandri.
Fortunatamente fino a questo momento non si sono registrati altri incidenti.
E' presto per stabilire cosa è successo; tuttavia, il sospetto che il poliziotto in quella maledetta domenica abbia perso la testa c'è tutto.
Forse ha visto troppi film americani, tipo Serpico o Arma Letale, ed ha pensato di poter fermare un'auto secondo lui in fuga con un colpo alle gomme. Forse lo ha preso un raptus...chissà. Aspettiamo.
Però quanto è accaduto dopo la dice lunga su cosa è il calcio italiano.
Formidabile secondo me la sintesi fatta da Michele Serra su Repubblica: Serra dice che dopo la Sicilia, la Calabria e la Puglia, la quarta regione in mano all'antistato è il calcio.
Il mondo del pallone ormai è una zona franca, dominata da gruppi di tifosi violenti ed arroganti.
E' una mandria animata da una logica di scontro, di lotta senza quartiere contro la società, la legge e lo stato, contro la polizia che ne è una delle articolazioni più importanti.
Logica di conflitto dunque, ma in nome di che cosa?
Sicuramente alcune frange di ultras non hanno precisi riferimenti ideologici, ma è un fatto che le curve sono controllate da gruppuscoli, da "cespugli" di estrema destra.
Mentre black-blockers e animatori dei centri sociali occupano gli stabili di periferia in disuso, i centri di propaganda e di reclutamento dei giovani nazifascisti sono gli stadi. Entrambi poi convergono nelle piazze e nelle strade delle città per creare caos e violenza.
Mi sbagliavo solo sull'entità del fenomeno: pensavo che fossero meno numerosi e quindi meno dannosi dei loro colleghi di estrema sinistra.
Non è così, purtroppo il cancro è cresciuto. Ed oggi alcuni di loro erano al funerale di Gabriele, col braccio teso nel saluto romano. Ignobili.
E il calcio che c'entra? C'entra eccome, nonostante calciatori, giornalisti e manager delle società si affannino a dire che certi delinquenti con il pallone non hanno niente a che fare.
Le società portano la pesante responsabilità di aver accettato la vicinanza dei gruppi di ultras; secondo i casi, vengono tollerati perchè sono temuti o fanno comodo.
Si ha paura delle rappresaglie, delle contestazioni, oppure si utilizzano i greggi di tifosi pecoroni come massa di manovra per protestare contro il sistema, contro arbitraggi e complotti veri o presunti, nascondendo così le proprie colpe: campagne acquisti sbagliate o gestioni di bilancio da bancarottari.
Lotito, unico presidente della A che ha avuto il coraggio di spezzare la complicità, per ora è solo a combattere questa battaglia civile. E si muove sotto scorta.
I calciatori a volte accettano l'amicizia dei capataz ultras (come il fascista Di Canio o il semplicione Materazzi) invece di tenerli a debita distanza.
I giornalisti sportivi danno il loro contributo; conducono trasmissioni insulse dove si litiga a ciclo continuo o attraverso i giornali fanno nascere veleni dal nulla.
La politica dorme o si gira dall'altra parte. Ci sono uomini di partito che bazzicano le periferie ed i club di tifosi per accaparrarsi voti. Finchè un fatto eclatante non li obbliga a far finta di occuparsi del problema.
Il calcio è morto; sono convinto che molti come il sottoscritto se ne sono allontanati, disgustati per averlo visto degradato ad un gioco gladiatorio, ad un'insensata guerra permanente. Tutti contro tutti, ma se serve tutti contro la polizia.
E' un mondo inqunato dalla politica, dai quattrini. Le lotte di potere fra big vengono spacciate per campagne moralizzatrici.
Calciopoli è finita con la punizione di un capro espiatorio (Moggi) e l'assoluzione di tutti gli altri mascalzoni (Moratti, Galliani e Carraro in testa).
Andate in pace.
Bookmark and Share

sabato 10 novembre 2007

Zaia e la chiesa di Treviso

Luca Zaia, Vicepresidente leghista della regione Veneto, è in polemica con la diocesi di Treviso. Il motivo è l'ospitalità concessa dal parroco di un comune della provincia, Ponzano Veneto, ai musulmani per la preghiera del venerdì.
Zaia ha chiesto al vescovo di intervenire per bloccare l'iniziativa. E' stato subito ascoltato, dato che il vescovo ha ribadito che non si possono usare i locali ecclesiastici per i riti di altre religioni.
Non vi sarebbe nulla di strano nella questione, se non vi fosse stata l'intromissione del politicante di turno.
Un sacerdote ha promosso un'idea che un suo superiore nella gerarchia ecclesiastica non ha approvato. La chiesa è giustamente sovrana nella sfera delle proprie attività di culto.
Allo stesso modo non vi sarebbe nulla di strano se il reggente della diocesi di Treviso avesse, al contrario, appoggiato l'iniziativa del parroco. Vale quanto detto sopra.
La nota stridente è l'intervento in una questione di fede di un esponente della Lega, che deve parte della sua fortuna politica ad una propaganda che ha sempre stuzzicato gli umori popolari. In particolare negli ultimi tempi contro l'Islam.
Non amo particolarmente l'Islam, per ragioni analoghe non amo neppure la Chiesa Cattolica; però in nome del principio "libera chiesa in libero stato" l'autonomia delle varie confessioni dev'essere rispettata.
Non si può chiedere alla chiesa di evitare indebite interferenze nella vita pubblica e poi intromettersi in questioni da cui la politica deve restare distante.
Soprattutto se ne sono protagonisti soggetti a caccia di facili simpatie, appartenenti a forze politiche che dicono di voler difendere i valori cattolici e nello stesso tempo celebrano strampalati riti neoceltici, come il versamento dell'acqua del Po nella laguna di Venezia.
Riti di sapore neopagano che rientrano nella categoria delle baracconate da quattro soldi.
Bookmark and Share

giovedì 8 novembre 2007

Diliberto e la mummia di Lenin

Il circo Barnum della politica nostrana non finisce mai di stupire. Oliviero Diliberto fra il serio e il faceto ha ventilato l'ipotesi di accogliere qui da noi le spoglie di Lenin.
Questo perchè lo zar Vladimiro, a quanto pare, vuole chiudere il mausoleo di Mosca che da molti decenni ospita la mummia del padre della rivoluzione.
La generosa dichiarazione di disponibilità è stata fatta dal nostro durante la sua visita in Russia, ospitato dal partito comunista di Ziuganov.
Il leader maximo di una cellula del comunismo italiano ha incontrato il segretario di un partito di sopravvissuti e nostalgici dei bei tempi che furono (quelli dell'URSS, e qui mi viene un brivido alla schiena).
E fra amarcord commoventi, brindisi a base di vodka, pacche sulle spalle e analisi dello scenario internazionale in chiave marxista, è venuta fuori questa straordinaria pensata. Attendiamo di sapere dove "Dilibertov" pensa di collocare le illustri spoglie.
Ci manca solo che proponga di trasferire nelle piazze d'Italia le statue dei vari dittatori comunisti, Stalin in testa, che dopo la caduta del muro sono state abbattute e gettate da una parte.
La salma di Lenin non ha pace; prima di morire il leader russo aveva espresso l'umano desiderio di essere sepolto privatamente, vicino alla madre.
Non lo rispettarono; lo imbalsamarono come un faraone e lo esposero agli occhi delle folle che volevano venerarne le reliquie, inaugurando la tendenza ad ammantare di sacralità i leader comunisti che ha sempre fatto a pugni con l'ateismo dichiarato di quell'ideologia.
Il comunismo aveva la pretesa di essere una scienza, ma si è trasformato in religione, con le sue divinità, i suoi santi e i suoi fedeli, che anche qui da noi sono ancora presenti.
Chissà cosa direbbe il padre della rivoluzione d'Ottobre di questo culto della personalità.
Bookmark and Share

sabato 3 novembre 2007

No alla caccia al rumeno

La cronaca degli ultimi giorni ci da molta materia per riflettere.
Dopo l'assassinio brutale della signora Reggiani a Roma, qualcuno ha pensato di dover vendicare il delitto aggredendo tre rumeni all'uscita di un supermercato a qualche chilometro di distanza. Che sia l'inizio di un'ondata xenofoba?
E' probabile; d'altra parte siamo di fronte ad un sentimento popolare che monta da diverso tempo, da almeno qualche anno.
Io vivo in una regione dove la presenza di stranieri è alta; si calcola che nella provincia di Treviso il totale degli stranieri, rispetto alla popolazione di origine italiana, sia circa il 10%.
Fra questi, i rumeni sono al primo posto.
A favorire l'incremento della loro presenza giocano due fattori: l'economia ricca e la maggiore vicinanza del nordest alla loro terra d'origine. Io stesso ne conosco personalmente alcuni, a cominciare dai miei vicini di casa.
L'atteggiamento del veneto medio di fronte a questa presenza è molto contraddittorio e sofferto; tutti sono consapevoli che è necessaria per mantenere in movimento il volano dell'economia, ma la diffidenza è forte. E' lo stato d'animo di una regione che riflette in pieno quello di tutto il paese.
In questi ultimi giorni è scattato il tam-tam dei media, locali e nazionali; tutti a sottolineare il "problema rumeno", con toni decisamente ossessivi su tv locali come Antenna 3 e Rete Veneta.
Non vorrei che gli ultimi episodi della cronaca nera spingessero ad una caccia al rumeno; non è questa la soluzione.
Chi ha aggredito i tre operai all'uscita del supermercato deve essere individuato e punito severamente.
Esattamente come è lecito attendersi una pena severa per il responsabile dell'omicidio della donna di Roma.
Lo stato ha l'obbligo stringente ed assoluto di intervenire, per evitare che emerga una giustizia fai da te.
Perciò, bene ha fatto il governo a proporre un pacchetto sicurezza che pare incamminato sui binari dell'urgenza.
Malissimo ha fatto il centrodestra ad approfittare della situazione per imbastire la solita maldestra polemica strumentale, volta a dimostrare che la colpa di tutto è dei loro avversari.
Penosa la performance di Fini, che ha visitato sotto l'occhio delle telecamere la stazioncina luogo del misfatto. Cosa ha fatto il partito di Fini per impedire questi fenomeni, quando poteva?
Berlusconi, uomo patologicamente avvezzo alle bugie più sfacciate, sostiene che l'emergenza è nata con il governo Prodi.
Niente di più falso, come ben sa chi conserva un minimio di memoria degli avvenimenti e non ha ancora portato il cervello all'ammasso.
I problemi di criminalità legati all'immigrazione datano molto indietro nel tempo; chi oggi strepita in cinque anni di governo non ha fatto praticamente nulla, a parte istituire il poliziotto di quartiere che nei quartieri non si vede (si sa che le forze dell'ordine hanno organici ridotti).
Anzi, chi oggi strepita è responsabile di aver tagliato i fondi alle forze dell'ordine ed alla magistratura e di aver fatto una maxi sanatoria per un totale di 700.000 persone, fra le quali si celavano anche personaggi dai dubbi comportamenti.
La questione di fondo è, come spesso avviene in questo paese perennemente non governato, che tutta la classe politica ha dormito lasciando che il problema si incancrenisse.
Tardiva (ma da appoggiare) è l'iniziativa del governo, del tutto mancante in passato è stata l'attenzione del polo berlusconiano ai temi della sicurezza pubblica.
Il toro va finalmente preso per le corna ed atterrato; non c'è più tempo, se si vuole evitare la crescita dell'incomunicabilità e dell'odio fra italiani e stranieri che, piaccia o no, devono vivere gli uni accanto agli altri.
Va fatto anche per impedire che si sviluppi un brodo di coltura per i gruppuscoli della destra estrema (Forza Nuova in testa), altro problema emergente come ho scritto in un post.
Ragazzi ignoranti, emarginati e violenti proprio come il rumeno che ha aggredito la Reggiani, che stante questo clima possono godere di una perversa legittimazione morale e politica e saldarsi alla xenofobia che sta radicandosi nell'opinione pubblica.
La xenofobia; dovunque ci sia un fenomeno migratorio, prima o dopo viene fuori, tutti ne possono essere colpiti.
Italiani compresi, quando andavano all'estero a cercare fortuna e subivano vessazioni a causa dei crimini commessi dai loro connazionali.
Per ripassare un pò la storia, e dire no alla caccia allo straniero, val la pena di leggere il libro di Gianantonio Stella "L'orda".
Sottotitolo: quando gli albanesi (o i rumeni) eravamo noi.
Bookmark and Share

giovedì 1 novembre 2007

Un folletto di nome Angus Young


Angus Young è uno dei due archetipi del chitarrista rock.
Nell'arco della sua più che trentennale carriera, spesa interamente negli inossidabili AC/DC, ha incarnato il lato più viscerale ed istintivo di questo genere come pochi altri hanno saputo fare.
L'altro archetipo è quello del chitarrista colto, dallo stile complesso tecnicamente e ricco di riferimenti: categoria a cui appartengono nomi come Ritchie Blackmore, Jimmy Page e Tony Iommi fra gli altri. Musicisti venerati e di atteggiamento un pò algido, distaccato.
Angus è diverso; è un autodidatta dallo stile semplice (e per questo snobbato da una parte della critica), che ha imparato a suonare da solo ascoltando gli album degli Yardbirds, degli Who e di Muddy Waters.
Si è sempre posto, come tutti i membri degli AC/DC, in comunione totale con il pubblico. Un dilettante allo sbaraglio assurto a fama mondiale grazie alle ritmiche sfrenate e grezze impresse all'Hard Rock, ai riff al fulmicotone che fuoriescono dalla sua Gibson modello diavoletto.
E' un folletto che rappresenta il feeling più profondo del rock, la pancia del genere, specularmente ai personaggi succitati che ne rappresentano invece la testa.
Nel film School Of Rock, l'insegnante interpretato da Jack Black per spiegare ai suoi allievi come deve essere una chitarrista fa vedere un video di Angus.
Il suo marchio di fabbrica sono le esibizioni dal vivo in cui si dimena come un ossesso, saltando di qua e di la vestito con la celebre divisa da scolaretto, suggeritagli dalla sorella.
Gli AC/DC in effetti nascono come una questione di famiglia. Ne sono fondatori, all'alba degli anni 70 Angus ed i suoi fratelli Malcom (chitarra ritmica) ed Harry Young, che ne produrrà gli album per diversi anni.
Gli Young appartengono all'ambiente dell'immigrazione scozzese di Sydney, Australia; un ambiente tosto, fatto di grandi lavoratori ed altrettanto grandi bevitori.
Gente sanguigna ed un pò ai margini, pronta a menare le mani soprattutto dopo una serata al pub; gli Young rispettano la tradizione, già ai tempi della scuola si segnalano per il carattere fin troppo vispo e la scarsa dedizione allo studio.
Quando prende corpo il progetto di fare musica, incontrano sul loro cammino un altro figlio di emigranti scozzesi, Bon Scott.
Anarchico ragazzo di strada che di tanto in tanto finisce nei guai con la giustizia e viene piazzato davanti al microfono (pure lui è un dilettante allo sbaraglio) .
Bon Scott evidenzia uno stile canoro molto originale, è un urlatore blues capace di passare dalle vocine infantili o maniacali ad interpretazioni struggenti e sofferte. Unico.
Con l'ingresso di Phil Rudd alla batteria e di Mark Evans al basso la squadra è completa, gli ingredienti per un cocktail esplosivo sono pronti.
Gli AC/DC iniziano un percorso che li porterà ad essere uno dei gruppi Hard più amati, con il loro tipico, bollente boogie rock dalle venature blues, che nel corso degli anni 80 assume connotazioni più heavy mantenendo però sempre un imprinting inconfondibile.
Gli anni 80 tuttavia si snodano senza Bon Scott, morto nel Febbraio dell'80, soffocato dal vomito dopo l'ennesima sbronza.
Viene sostituito da un altro urlatore d'eccezione, lo scozzese (tanto per restare in tema) Brian Johnson, che riesce nel non facile compito di farsi accettare dai fans.
Gli AC/DC sono stati fonte d'ispirazione di decine di gruppi. Angus ne è l'anima ed è uno dei pochi musicisti che hanno tirato fuori completamente il potenziale energetico di questo genere.
Volare a un milione di watt.
Bookmark and Share