domenica 11 maggio 2008

Se boicotti Israele, boicotti la cultura

La sinistra radicale - extraparlamentare ha sfilato a Torino. Ha dimostrato la sua atavica e tenace avversione a Israele. Felicitazioni, il compitino è stato diligentemente eseguito.
Messaggio netto: il popolo d'Israele non si può esprimere, non ha diritto di parola. D'altro canto, l'atto di bruciare le bandiere israeliane com'è avvenuto sempre a Torino il primo Maggio dice già tutto. Significa annientare, o desiderare di farlo.
Lo striscione "boicotta Israele, sostieni la Palestina" che apriva il corteo, non rende bene l'idea; doveva essere sostituito da "Sostieni la Palestina e distruggi Israele".
Una fiera del libro è il luogo naturalmente deputato al confronto fra le culture. E' l'occasione, per un popolo, di raccontarsi di fronte agli altri. Ma Israele no. La cultura di un intero popolo paga le conseguenze della politica dei suoi governanti.
Sarebbe stato un fatto positivo se gli aderenti alla manifestazione, radunati dal network Free Palestine, avessero indetto un forum per discutere sul conflitto israelo - palestinese, invece di sfilare nel solito corteo vecchia maniera.
Ma si è scelta la strada della contrapposizione frontale senza se e senza ma, anticipata dalla scelta di alcuni scrittori di lingua araba, a Febbraio, di disertare l'appuntamento.
Vale a dire, solo noi possiamo parlare, esistono solo le nostre ragioni. Se invitate Israele, noi non partecipiamo.
Le suffragettes dei centri sociali e dei partiti dell'arcobaleno hanno così consumato il loro rito tradizionale e stantio. E poi si chiedono perchè vengono mollati dagli elettori.
Il manicheismo semplificatorio che li affligge, tutto il bianco da una parte e tutto il nero dall'altra, li porta a identificare in Israele il male da sconfiggere.
Stiamo parlando, è bene ricordarlo ai duri di comprendonio, non solo dello stato che occupa ancora terre dei palestinesi; che mette in difficoltà la già precaria autonomia dei territori con la chiusura delle frontiere; che provoca con le sue incursioni militari vittime civili e così via dicendo.
Stiamo anche parlando dell'unica democrazia del Medio Oriente, a parte il fragile Libano che in questi giorni ancora una volta attraversa un momento difficile; dove le dispute politiche non vengono regolate a colpi di kalashnikov come fanno Hamas e Fatah, ma con i metodi della democrazia.
Dove esiste un'opposizione netta alla gestione dell'infinita crisi palestinese espressa da associazioni e gruppi politici ai quali si permette di esistere e di operare.
Dove le donne hanno pari opportunità, non sono schiave del velo e dei loro mariti; dove anche agli arabi che l'hanno voluta è stata concessa la cittadinanza.
Mentre agli ebrei in ogni tempo e in ogni luogo è stato dato il foglio di via, quando non si è tentato di massacrarli.
E proprio qui c'è un nodo fondamentale, che ogni riflessione sulla tragedia che si consuma in Palestina da troppo tempo non può ignorare.
Israele nasce, nel lontano '48, per dare alle comunità ebraiche sopravvissute alla Shoah una terra dove vivere, dove sentirsi finalmente al sicuro. E' il focolare di cui parlava il Sionismo.
Israele nasce con un atto di forza non solo perchè Stati Uniti e Gran Bretagna non si decidevano a sbloccare lo stallo con una mediazione fra le parti, che portasse già allora alla spartizione e alla nascita di due stati.
Ma anche perchè la comunità musulmana, mal rappresentata da dirigenti che in precedenza avevano appoggiato Hitler, non voleva la spartizione.
Casomai voleva una guerra di sterminio contro gli ebrei, "un massacro di dimensioni imponenti" (dichiarazione della Lega Araba, 1947).
Ci sono forti dubbi, dopo sessant'anni, che il mondo islamico su cui si stende l'ombra di Ahmadinejad, Nasrallah e altri ameni leader, abbia abbandonato questo proposito. Nell'attesa di un chiarimento, difendiamo il diritto di parola di Israele o meglio della sua gente, che non può essere zittita per gli errori e le colpe di chi la governa.
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