venerdì 28 settembre 2007

Le ultime dalla Birmania

Come si poteva facilmente prevedere, gli uomini forti al potere a Rangoon sono passati all'azione. Blindati, fucili e scarponi contro una massa di civili inermi ma coraggiosi (loro sì sono veramente uomini forti), contro i monaci buddisti scalzi, armati soltanto della loro forza spirituale.
L'esito di questa crisi non è facilmente prevedibile; pare che all'interno della giunta militare ci siano dei disaccordi.
Tuttavia il potere abusivo ed infame della Birmania ha amici potenti; la Cina innanzitutto, che ha rapporti di business importanti con il Myanmar.
Pechino ipocritamente ha raccomandato moderazione, preoccupata com'è di salvare la faccia di fronte alla comunità internazionale, alla vigilia delle Olimpiadi.
Più sincero è stato il regime di Putin: ha detto all'Onu che la crisi è un affare interno della Birmania.
Tanto per mettere in chiaro che quando si tratta di reprimere il dissenso (e il potere russo è specialista in questo), è bene che ognuno pensi a fatti suoi.
Il caso di Anna Politovskaja, la giornalista scomoda ammazzata un anno fa a Mosca, lo dimostra. Oltre ai civili, ci rimettono i giornalisti; un reporter giapponese è stato freddato in strada senza tante cerimonie, abbiamo visto le immagini.
Negli alberghi c'è la caccia ai rullini fotografici, ai taccuini, ai pc portatili; come sempre, le dittature hanno paura della forza della parola, della testimonianza diretta.
Quindi i giornalisti sono vittime predestinate: spesso li critichiamo, ma molti di loro interpretano con coraggio e coerenza la missione della stampa.
Quella di raccontare, di portare alla luce i fatti, di inchiodare il colpevole alle sue responsabilità. Senza la libertà di stampa non c'è democrazia.
Anche di questo hanno paura i militari del Myanmar, e per questo tanti giornalisti muoiono in ogni parte del mondo.
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