venerdì 29 febbraio 2008

Vladimir Putin, il leader nazionale

Lo sguardo di ghiaccio tipico della spia, il machismo sbandierato a volte in modo grossolano (come in questa foto), lo stile autorevole del grande statista: a Vladimir Putin non manca proprio niente per affascinare le masse.
Putin, al potere dal 2000, è il nuovo zar di tutte le Russie; non è riuscito o forse non ha voluto modificare la costituzione per assicurarsi il terzo mandato, ma si è assicurato un successore, Medvedev, a lui fedele.
Un giovane tecnocrate lindo e sicuro di se come lui, che eserciterà i poteri presidenziali nel solco della continuità.
Putin veglierà sul suo operato, ancorchè come primo ministro e quindi in una posizione formalmente subordinata.
Il gioco è fatto; la Russia il 2 Marzo svolgerà le elezioni presidenziali più farsesche e inutili del periodo post-sovietico, dopo quelle per il rinnovo della Duma.
Intimidazioni agli avversari, l'esclusione discutibile di liste avverse, i partiti di quella parte d'opposizione tollerata già rassegnati al verdetto.
Putin come Mussolini, che non reagiva alle continue e serrate critiche di Benedetto Croce per dimostrare che il Fascismo era rispettoso della libertà di pensiero.
Gli osservatori internazionali diserteranno il prossimo happening elettorale, essendo in totale disaccordo sulla sua gestione. Fine della democrazia.
Putin è un personaggio alla John Le Carrè; è un funzionario cresciuto, dopo la laurea in diritto internazionale (sic), nei ranghi del KGB e si narra che si commuova sempre quando rievoca quel periodo. Giovinezza primavera di bellezza.
Ed è un figlio d'arte, dato che anche suo padre militò nell'NKVD, la sinistra polizia politica di Stalin.
Queste le radici culturali del nuovo zar e perciò non sorprende affatto la gestione autoritaria del potere che ha caratterizzato la sua presidenza.
Putin appartiene alla generazione di burocrati e quadri rimasti orfani dell'Unione Sovietica (Vladimir era in Germania Est quando crollò il muro), che nonostante o forse grazie a questo sono riusciti a fare una grande carriera.
Putin nel 2000 era l'uomo giusto al momento giusto; il paese aveva un'economia in ginocchio, un'influenza politico-militare azzerata, un presidente (Eltsin) in declino fisico e mentale, la Cecenia in fuga.
Proprio Eltsin ha acceso la stella putiniana nominandolo primo ministro nel 1999. Il giovane leader ha mostrato subito di che pasta era fatto reprimendo nel sangue la rivolta della Cecenia. Lo zar Vladimiro poi ha trasformato la caotica Russia degli anni 90 in un paese ordinato e con un PIL in crescita, nonostante la miseria di gran parte della popolazione raccontata dalla giornalista Anna Politkovskaja.
Adesso guida una politica internazionale volta a riaffermare il prestigio e l'influenza di Mosca, a spese delle repubbliche confinanti, che vengono destabilizzate (come nel caso dell'Ucraina o della Georgia) se provano ad allontanarsi, entrando perciò in conflitto con gli Stati Uniti che dopo la fine del patto di Varsavia sono riusciti ad attrarre diversi stati dell'Est. Con quali conseguenze per la stabilità mondiale è facile immaginare.
Putin dal 2 Marzo non sarà più presidente ma ormai è il leader, la guida per una nazione a cui sta anche insegnando a liberarsi dell'imbarazzo per il suo passato totalitario.
Anzi ha sostenuto pubblicamente che Stalin, pur essendo un dittatore, ha fatto cose buone di cui i programmi scolastici, nell'insegnare la storia, devono tenere conto.
Quali siano queste cose buone si può leggere ad es. nella biografia di Stalin di Robert Conquest, che ha dedicato gran parte della sua attività di storico ad analizzare gli orrori del Comunismo.
Quest'uomo, dittatore assassino di giornalisti, alla fine del 2007 è stato nominato uomo dell'anno dalla rivista britannica Time.
Proprio nel paese, culla della democrazia moderna, dove l'oppositore Litvinenko è stato ucciso con il Polonio dagli agenti di Putin.
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Campagna elettorale, chiedete e vi sarà promesso

Campagna elettorale. Da ora fino al giorno del voto, saremo sommersi dalle promesse, dai proclami, dai programmi, in attesa dei confronti televisivi.
Un bel grattacapo per i responsabili delle televisioni, su cui pende la spada di Damocle della par condicio. Come fare per permettere ai numerosi candidati premier di apparire e dire la loro? Confronti a due? A tre? A quattro? Come moderarli?
Intanto fioccano le dichiarazioni. Come dice il tale, chiedete e vi sarà promesso. L'ultima di oggi riguarda Berlusca che ha promesso il ritorno del nucleare. Silvio l'atomico.
Nessuno che gli abbia fatto notare (a cominciare dai giornalisti, che come al solito recitano la parte delle comparse silenziose in commedia) ciò che dicono gli esperti del settore, Carlo Rubbia in primis.
Il ritorno delle centrali nucleari si potrebbe avere solo fra almeno dieci anni e a patto di investire ingenti stanziamenti di cui oggi è incerta la disponibilità. Oltretutto forse le riduzioni eventuali per la bolletta non sono nemmeno scontate, come insegna l'esperienza di altri paesi.
Ma Berlusconi non ha mai sentito il problema di reperire i fondi: quando era al governo ha indetto gli appalti per le grandi opere senza copertura.
Silvio l'atomico poi ha detto che toglierà l'Irap, cosa ripetuta almeno una decina di volte quando era a Palazzo Chigi. L'Irap è ancora in vigore, come ben sa chi la paga.
E così per l'ICI; anche Veltroni a dire il vero ha promesso una riduzione del carico fiscale su cittadini e imprese.
Il debito pubblico però è ancora lì e nessuno ha chiarito le soluzioni per aggredirne le cause strutturali, ovvero una spesa pubblica irrazionale fatta di sprechi e costi esorbitanti per il mantenimento del settore pubblico.
Da questo punto di vista siamo maglia nera in Europa, tanto per cambiare: la nostra pubblica amministrazione è uno delle più grandi e inefficienti.
Sono questioni, il debito pubblico, la riforma fiscale, i costi dell'apparato amministrativo - istituzionale (in cui rientrano anche quelli della casta parassitaria che ci governa), vecchie di almeno vent'anni.
Una soluzione la offre Casini: lo stato venda le azioni di Eni ed Enel così da recuperare fondi per altri utilizzi.
Bravo Pierferdi: proprio quando la questione energetica sta diventando cruciale per tutti i paesi, lo stato italiano dovrebbe rinunciare a una presenza strategica in questo ambito. Non solo promesse ma anche parole in libertà.
Mancano proposte innovative per superare le tare strutturali che incatenano la società e l'economia; i programmi si assomigliano senza il segno di qualche novità forte, i due Gianni e Pinotto si accusano reciprocamente di plagio.
Per esempio sarebbe interessante sapere cosa pensa Veltroni sul conflitto d'interessi. Silenzio da parte sua e naturalmente nessuno glielo chiede.
Oppure sarebbe interessante sapere se ha cambiato idea rispetto all'infelice uscita sulle intercettazioni telefoniche, che ricalca esattamente quanto detto da Berlusconi. Si preparano alle larghe intese?
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lunedì 25 febbraio 2008

Non è un paese per vecchi. Cohen da oscar

Tre uomini. Un operaio texano, reduce del Vietnam e appassionato di caccia; un implacabile sicario psicopatico, uno sceriffo alle soglie della pensione.
Il primo si imbatte casualmente, nel deserto, in una valigetta piena di dollari, abbandonata nel luogo di un regolamento di conti fra trafficanti di droga messicani.
Il secondo (uno straordinario Javier Bardem) lo bracca per riprenderla e dissemina il suo cammino di morti, scegliendo come un Dio capriccioso chi ammazzare e chi risparmiare con il gioco della monetina.
Il terzo tenta di fermarli, o perlomeno di salvare la vita all'ostinato cacciatore, intuendo che con tutta probabilità non avrà scampo.
Questa in sintesi la trama di "Non è un paese per vecchi", il nuovo film dei fratelli Cohen tratto da un romanzo dello scrittore Cormac Mc Carthy, che proprio ieri sono stati premiati da quattro oscar.
Dentro l'involucro del genere noir (o non è piuttosto un western moderno?), i Cohen raccontano un mondo dominato dalla sopraffazione e dalla violenza efferata, dove si uccide senza una motivazione e si è smarrito il senso di tutto.
Il male trionfa, l'assassino la farà franca; come uno spettro inafferrabile andrà dietro al suo scopo insondabile: i soldi non gli interessano, farà fuori addirittura il suo committente.
Non puoi fermare ciò che sta arrivando, dice al tormentato sceriffo (Tommy Lee Jones) un suo amico, tutore dell'ordine già a riposo da tempo.
"Non è un paese per vecchi" in effetti racconta la fine dei significati, di un codice etico in cui anche il mondo criminale aveva finalità razionali.
E la data al 1980, probabilmente identificata come il momento d'inizio del nuovo mondo. Quello in cui viviamo.
Il vecchio e umano sceriffo non si capacita di quello che gli accade intorno, il paese non è più per quelli come lui.
Racconto dell'arancia meccanica americana di oggi, ma amara riflessione valida per qualunque paese moderno, dove la cronaca offre continui spunti per chiedersi come hanno potuto, com'è possibile che la morte violenta e casuale colga gli innocenti nel campus o mentre sono al volante per tornare a casa dai figli.
I Cohen dunque tornano al noir e recuperano, arricchendole ulteriormente, le atmosfere stralunate e angosciose di Fargo.
Film in magistrale equilibrio fra azione e immobilità, con silenzi che fanno esplodere la tensione e una fotografia che resta impressa, per i Cohen Bros dopo la digressione un pò discussa nella commedia (con Ladykillers e Prima ti sposo, poi ti rovino), è un ritorno in grande stile. Da oscar appunto.
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venerdì 22 febbraio 2008

Italiani nella ragnatela del terrorismo islamico

Apprendiamo oggi che la polizia ha oscurato alcuni blog dove si faceva propaganda filo-islamica, o meglio a favore del terrorismo islamico.
Due di questi erano gestiti dal noto Imam di Carmagnola, espulso da tempo dal nostro paese, e dalla moglie.
Sorprende scoprire che gli altri due erano gestiti da italiani convertiti all'Islam, stando almeno a quanto hanno raccontato i media. L'indagine ha prodotto sette denunce per istigazione a delinquere.
Peccato non poter più leggere i contenuti di questi sitarelli, perchè viene da chiedersi per quale motivo alcuni italiani incensurati si sono legati ad ambienti dell'eversione islamica.
Gli attentati che hanno sconvolto Londra nel Luglio 2005 sono stati compiuti da estremisti di origini non europee, ma anche qui sorprende un pò (o forse no?) che del gruppo facesse parte un jamaicano, paese che non appartiene di certo alla cerchia più ardente dei fedeli della religione maomettana.
Uno degli aspetti più inquietanti del terrorismo internazionale del XXI secolo è la capacità di attrazione che esercita su chi, per estrazione etnica e culturale, dovrebbe essere lontano anni luce dal fanatismo islamico.
la decisione di aderire all'eversione, qualunque matrice essa abbia, deriva sempre da un'insoddisfazione individuale irrisolta verso l'assetto politico-sociale.
Sposare un'ideologia, un'etica o una religione anti-sistema (o che possono essere configurate in chiave anti-sistema) diventa la via d'uscita, la risposta a un disagio non ricomposto. Si rompe definitivamente con la propria comunità, si bruciano i vascelli per imboccare la strada della violenza.
Questa è la ragione per cui anche chi magari non commetterebbe mai atti terroristici si converte all'Islam, un trend in crescita nei paesi occidentali da quando vi si sono insediate robuste minoranze islamiche.
L'Islam propone un'interpretazione della vita individuale e di relazione fortemente alternativa rispetto alle regole e allo stile di vita gaudente e materialistico (ammettiamolo) dei paesi occidentali.
Da questo punto di vista però anche il Buddismo propone un modo molto diverso di interpretare le ragioni dell'esistenza e i rapporti con il mondo.
La differenza è che l'Islam ha una logica totalitaria; fin dalle sue origini ha teorizzato una distinzione fra il mondo convertito alla vera fede, derivante dalla predicazione di Maometto, e il mondo "temporaneamente non sottoposto" al dominio dell'Islam.
Da qui parte il concetto di Jihadismo, di guerra santa avente come fine la conversione dell'altra parte.
Strumento della Jihad è la predicazione e la forza dell'esempio, ma è anche (e la storia dei rapporti fra Islam e Occidente lo dimostra) conflitto armato.
Gli italiani caduti nella tela tessuta dagli imam hanno preso parte alla Jihad contro il mondo da cui provengono, in definitiva contro loro stessi.
Si sono asserviti al disegno sanguinario di chi pretende di indicare agli altri la retta via. Come diceva Voltaire le religioni sono "sette l'una contro l'altra armate"; in mano agli oltranzisti, diventano armi letali contro l'umanità.
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mercoledì 20 febbraio 2008

Boris Pahor, una voce dell'altra storia

Boris Pahor, ne ho sentito parlare per la prima volta Domenica scorsa; era ospite della trasmissione di Fabio Fazio - Che tempo che fa -
Prima non ne sapevo nulla; la scuola non me lo ha fatto mai conoscere.
Classe 1913, triestino, scrittore con all'attivo decine di libri. Cittadino italiano ma di nazionalità slovena, conosciutissimo all'estero, sconosciuto nel nostro paese dove ha sempre vissuto.
Pluripremiato (ha anche la Legion d'Onore francese), ignorato in casa nostra.
L'occasione per la sua presenza in TV è la ristampa di uno dei suoi romanzi più famosi (ma non qui) - Necropoli - dove racconta la sua esperienza di deportato nei campi di concentramento nazisti.
Mi ha colpito non solo perchè ha rievocato quella tragica vicenda con un tocco di profonda umanità, ma anche perchè è una voce dell'altra storia e dell'altra cultura; quella che dal dopoguerra ad oggi in Italia non è mai stata riconosciuta ufficialmente e quindi divulgata.
E' lo stesso atteggiamento che per decenni ha impedito di conoscere nella sua esatta dimensione il dramma delle foibe (chi lo ha studiato nei libri di storia?), che ha portato a tollerare con un certo disagio gli esuli istriani fuggiti dai titini alla fine degli anni '40.
Non era opportuno parlarne per ragioni diplomatiche, di rapporti con la vicina Jugoslavia e perchè la sinistra comunista, che ha influenzato la memoria della resistenza, voleva rimuovere una pagina imbarazzante.
Voleva cancellare l'altra storia, quella degli sconfitti o di chi, pur non essendolo, non si allineava al nuovo corso politico e culturale.
Pahor rientra in quest'ultima categoria perchè è uno sloveno di Trieste, città conquistata dall'Italia al termine della prima guerra mondiale, dove il Fascismo ha cercato di marginalizzare la presenza slovena.
Ed è poi un intellettuale legato all'umanesimo cattolico e quindi inviso alla parte dominante della cultura italiana del dopoguerra, condizionata dal Marxismo e dal PCI.
Fortunatamente, l'altra storia prima o dopo riemerge dalla nebbia in cui qualcuno cerca di cacciarla.
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